COMUNICATO STAMPA con cortese preghiera di pubblicazione/diffusione
Venerdì 2 maggio 2014, alle ore 20.45, presso l’auditorium Comunale di Lestizza, si inaugura la stagione
teatrale comunale con lo spettacolo L’ùali di Diu (L’occhio di Dio), versione friulana dell’opera Elnémulás
(letteralmente “Ridurre al silenzio”) dell’ungherese Miklós Hubay, uno dei maggiori drammaturghi del nostro
tempo, scomparso a Budapest l’8 maggio 2011, all’età di 93 anni. Un lavoro che, per la regia di Massimo Somaglino,
assistito da Camilla Manzato, e l’interpretazione di tre talenti della scena friulana, Aida Talliente, Fabiano Fantini e
Marco Rogante (disegno audio-luci di Claudio Parrino e scene di Claudio Mezzelani), è stato coprodotto con
un’ampia e coraggiosa azione di rete sul territorio da territorio da Associazione Colonos, Comune San Vito al
Tagliamento, Forum, Progetto Integrato Cultura del Medio Friuli, vicino/lontano.
L’opera si presenta nella veste linguistica della misteriosa e ammaliante variante carnica della Val Pesarina in
cui Carlo Tolazzi, con la collaborazione di Martina Arrigoni, ha tradotto le parole del testo, ricorrendo ad
un’alternativa arcana nel frastagliato mosaico delle parlate in marilenghe. Di forte impatto drammatico, è la
situazione portata in scena, che riguarda la morte di una lingua periferica e insieme il più generale tema del
genocidio culturale delle minoranze. In L’ùali di Diu, in una situazione claustrofobica tra le porte chiuse di uno
scantinato, mentre fuori impazza la festa dei vincitori di guerra, tra un ambiguo carceriere rinnegato (Fantini) e un
fragile seminarista (Rogante), si consuma l’ultima notte di vita di una condannata a morte, Aleluja (Talliente), unica
testimone della cultura e della lingua di un popolo ai margini, che con la fine della detenuta si estinguerà. Una
potente metafora teatrale, fatale e compatta come una tragedia greca, per rappresentare la ferocia della storia,
l’umiliazione inflitta alle vittime indifese, il genocidio delle minoranze, sacrificate sugli altari di irrazionali pulizie
etniche o, per estensione, di più subdole, ma non meno devastanti, pratiche di omologazione.
“Le atrocità commesse contro le piccole etnie possono trasformarsi in una grande catastrofe per tutti”, diceva
Hubay, scrittore cosmopolita, ma anche difensore delle microaree e profondamente legato all’Italia, dove insegnò, a
Firenze, dal 1974 al 1988. Una delle sue ultime dichiarazioni d’amore per il nostro Paese – “si può vivere senza
l’Italia, ma non ne vale la pena” – la pronunciò nel corso di una video-intervista realizzata a Budapest nel 2009 da
Roberto Ruspanti, docente di letteratura ungherese all’Università di Udine, per la regia di Gilberto Martinelli. In
quella stessa occasione, invitato a dare un consiglio all’Italia di oggi, Hubay sollecitava gli italiani a “provare a
preservare quella meravigliosa diversità che l’Italia significa e che da Udine a Catanzaro, fino alla Sicilia, si manifesta
in così tanti modi di pensare, università, gastronomia, filosofia, sapienza e stile di vita”.
Tra i suoi luoghi dell’anima ci fu anche il Friuli, dove soggiornò più volte, ospite in particolare dei Colonos e
del Comune di San Vito. E proprio lì, nell’estate 2000, su invito di Danilo De Marco e Federico Rossi, Hubay,
recuperò dalla memoria e trascrisse di getto un copione andato perduto sulla scomparsa di un popolo, che allora, in
una prima versione friulana, ancora per la regia di Somaglino (anche interprete con Maria Grazia Plos e Giuliano
Bonanni), approdò alla messinscena di Infin il cidinôr, primo incunabolo dell’attuale rinnovata riproposta.